Tratto da "Voce della Comunità" - settembre 2007

Su preciso incarico del parroco don Carmine Rinaldi, ho il gradito compito di annunziare a tutta la città di Monte Sant’Angelo che martedì 18 settembre prossimo, primo giorno del triduo in preparazione alla festa di S. Matteo apostolo, dopo circa cinque anni, sarà riaperta al culto la chiesa dei Cappuccini. Si tratta di un luogo sacro antico denso di memorie storiche, faro luminoso di fede e di francescana operosità nei tempi passati e vero a proprio scrigno di tesori d’arte, specie per le sue bellissime tele che lo impreziosiscono e gli danno un’importanza che travalica ampiamente il dato tradizionale ed affettivo. La chiesa, per la nostra gente, è legata particolarmente alle tre devozioni popolari nei confronti di santi molto cari ai montanari: San Giovanni Battista, San Pietro Apostolo e San Matteo Apostolo. A proposito di quest’ultimo mi piace rilevare che, da una ricerca anagrafica condotta qualche anno addietro, risultò che gli abitanti di Monte Sant’Angelo con il nome di Matteo erano i più numerosi, superiori anche ai Michele. E’ chiamata “dei Cappuccini” poiché accanto ad essa sorse un fiorente convento di frati la cui prima pietra fu posta il 20 settembre 1595. In realtà essa risale ad epoche molto più lontane, quando si trovava in aperta campagna ed era e resta tuttora dedicata a San Nicola di Bari.. Oasi di preghiera, di pace e di carità francescana, si distingueva soprattutto nell’ospitalità per i religiosi forestieri che salivano al Gargano. Il convento, tra l’altro, accolse non meno di dodici Ministri generali dell’Ordine in visita all’Arcangelo, tra i quali S. Lorenzo da Brindisi. Tutta l’attuale villa comunale, la zona del palazzo degli studi e gli stessi alberi del Belvedere non erano altro che il grande e profumato giardino del convento dove si coltivavano frutta, verdura e piante medicinali. Infatti i religiosi si occuparono anche di erboristeria e medicina al punto che nel 1836, durante una feroce epidemia di colera, tutto il complesso fu trasformato in lazzaretto con i frati impegnati amorevolmente nella cura dei malati, secondo quello che è un loro carisma particolare (vedi il fra Cristoforo di Manzoni fra gli appestati). Ancora oggi, sull’architrave maggiore all’interno della chiesa, è incisa la data 1601, anno del termine dei primi lavori di ingrandimento della stessa che, però, proseguirono fino al 1678 per impulso dell’Arcivescovo di Manfredonia Vincenzo Maria Orsini, divenuto papa Benedetto XIII. L’edificio sacro presenta la pianta caratteristica di tutte le chiese cappuccine: una navata centrale più ampia con due laterali non troppo lunghe ma abbastanza ampie, anche se nel nostro caso quella di sinistra è scomparsa per diventare il corridoio che immette ai locali annessi. Già sulla porta di ingresso si lascia ammirare un bellissimo S. Michele, opera di statuari locali, che esce fuori dai canoni consueti basati sulla statua del Sansovino poichè realizzata con uno stile ed un effetto di movimento affatto originali. Nell’interno si è attratti particolarmente dallo splendore delle tele, dei marmi, degli affreschi e degli stucchi che quest’ultimo restauro mette felicemente nel dovuto risalto, come si potrà notare. Risalgono al 1700, specie ad opera e per le offerte della nobile famiglia montanara dei Cassa, che ebbe come esponente principale il dotto latinista, Arcidiacono Raffaele Cassa. Egli fece erigere l’altare maggiore della navata laterale dedicato a S. Agnese, con la bellissima tela d’altare raffigurante una Madonna della Misericordia dall’ampio manto disteso e Santa Rita e S. Agnese ai piedi, al di sotto del quale trovò sepoltura con tutta la sua famiglia. Altro altare “di patronato” è quello del Crocifisso e dell’Addolorata, appartenente alla nobile famiglia dei Guerra, anch’essi sepolti lì sotto. La grande tela dell’altare maggiore presenta al centro, in alto, la Madonna col Bambino con ai lati rispettivamente San Giuseppe e San Michele. Sotto, in atto adorante, S. Nicola (Titolare della chiesa), S. Francesco di Paola e S. Francesco di Assisi. Entrambe queste tele sono di scuola napoletana, dipinte dal pittore Emanuele Peruggini nel 1779. Tra le molte altre che si trovano in chiesa, alcune disparvero al momento della soppressione degli Ordini religiosi nel 1866-67, quando i Cappuccini furono costretti ad andare via o a ritirarsi presso i loro familiari. Una di essa, raffigurante Santa Barbara e Santa Lucia, è ora nell’aula consiliare del Comune. Importante e molto bella è anche la statua dell’Immacolata sull’altare della navata a destra entrando. E’ opera pregevole di Giacomo Colombo, rinomato scultore del Settecento con bottega in Napoli il quale scolpì anche l’Immacolata che oggi si venera nel duomo di Lucera, accanto alla tomba di S. Francesco Antonio Fasani. A questo proposito ricordo che il privilegio della celebrazione della solenne novena in preparazione alla festa dell’Immacolata Concezione dell’8 Dicembre per secoli era riservato gelosamente alle chiese dove officiavano i figli di S. Francesco e solo nel Novecento fu esteso a quelle parrocchiali. A Monte Sant’Angelo, per la precisione, le chiese francescane erano tre: S. Francesco, SS. Trinità (delle monache Clarisse) e San Nicola e, specie per le due comunità maschili, gli storici tramandano, a differenza di tutta una tendenza nelle alte sfere, rapporti di vera e sincera fraternità con frequenti scambi nelle celebrazioni delle Sacre Funzioni. Santi frati qui passarono la loro vita nella preghiera, profondendo il bene specialmente nei confronti della gente più umile. Si ricordano particolarmente un Padre Bonaventura da Monte morto nel 1740 ed un Frate Illuminato, grande predicatore e maestro di filosofia e teologia. E poi, sempre nel 1700, due esponenti di nobili famiglie montanare: Padre Santo Trotta e Padre Vincenzo Maria Zuchegna, tanto per fare solo qualche nome. Le loro spoglie riposano, insieme a quelle degli altri confratelli, sotto la chiesa. Era, infatti, nelle cripte di tutti i luoghi di culto che, prima delle leggi napoleoniche, si veniva sepolti. Il Comune, in una parte dei locali rimasti liberi alla soppressione dei frati, vi trasferì l’ospedale civile dove, negli anni 1940/1960, operò il mitico prof. Filippo Ciociola il quale tenne alto il nome e la fama della città con la sua straordinaria abilità chirurgica quando Casa Sollievo di San Giovanni Rotondo era ancora da venire. L’altra parte ospitò la Congregazione di carità, ente religioso che si occupava della beneficenza e che poi divenne comunale con il nome di E. C. A.. Qui trovarono realizzazione un asilo per bimbi, un collegio di formazione ed educazione per le ragazze delle famiglie meno abbienti e la casa di riposo per anziani, affidati alle Suore del Preziosissimo Sangue della beata Maria de Mattias che ancora oggi curano con amore quest’ultimo settore così importante della vita sociale cittadina. Dal 1894, per la demolizione della chiesa parrocchiale di San Pietro, sacrificata ad un non mai avvenuto isolamento della cosiddetta Tomba di Rotari, in questa chiesa si trasferì anche la Confraternita laica del SS.mo Sacramento. Un’associazione di volontari sorta nel 1544 con il compito di scortare in divisa, a turno, l’Eucaristia che allora doveva essere portata esclusivamente in processione in qualunque ora dovesse muovere dall’unica parrocchia cittadina per essere recata come viatico ai moribondi. La Confraternita vi portò le statue di S. Giovanni Battista, S. Pietro (che alcuni vogliono raffiguri, invece, San Celestino V, il papa dimissionario ricordato da Dante Alighieri) e della Madonna del Rosario nonché una delle due campane, la più grande, il cui arco venne così raddoppiato per l’occasione. La statua del Sacro Cuore è, invece, dono del maestro montanaro Michele Ortuso, chitarrista di fama internazionale del quale giustamente quest’anno il Comune ricorda il centenario della nascita, che amava molto questa chiesa nella quale era solito partecipare alla messa domenicale durante i suoi soggiorni nella città nativa. La Confraternita del SS. Sacramento aveva il privilegio di annotare tra i suoi iscritti tutti i Canonici di S. Michele e quello di esporre solennemente all’adorazione dei fedeli per l’intera settimana del Corpus Domini l’Eucarestia. Da questa chiesa, nella domenica fra l’ottava del Corpus Domini, muoveva la processione eucaristica parrocchiale ed era l’Arciprete del Capitolo a recare l’antico e scintillante ostensorio. I rettori della chiesa, dai primi anni del novecento, furono nell’ordine i sacerdoti Matteo Prencipe, Giuseppe D’Apolito, Marco D’Errico, Nicola Rinaldi (che fu anche benemerito insegnante) e Giovanni Lombardi, passato poi ad arciprete-parroco del Carmine. Intanto l’antica Confraternita si andava disgregando per mancanza di nuovi iscritti. La chiesa fu chiusa al culto a seguito del terremoto del 21 novembre 1980, ma la tenacia e la competenza artistica dell’ultimo rettore, il prof. don Antonio Troiano, la fecero riaprire, rafforzata nella statica e ben ripulita nel giro di due anni. Il decennio 1970 fu l’ultimo periodo felice della chiesa. Don Antonio la fece adibire anche a funzionale cappella del rinato Ospedale cittadino che negli antichi locali conventuali aveva ripreso le attività con i reparti di Medicina e Chirurgia, prima di essere trasferito (e poi ridimensionato) nella zona sud della città. Alla sua morte, dagli inizi degli anni 1990, mons. Valentino Vailati la aggregò alla Parrocchia di S. Maria Maggiore ed il parroco don Matteo d’Acierno, non senza le immancabili contrarietà alle quali va incontro chi fa qualcosa di buono quassù, fece restaurare da un artista di Lecce tutte le tele, ormai in stato molto precario. Vi si celebravano la messa parrocchiale domenicale e festiva delle ore 9,30 e si solennizzavano il mese mariano a maggio e le feste dei tre santi popolari lì venerati. Poi sopravvenne la chiusura per motivi di incolumità pubblica. Ecco, dunque, molto sinteticamente che cosa l’opera, la lungimiranza, la caparbia volontà di don Carmine (anche lui ha dovuto superare non pochi ostacoli) “ha restituito alla nostra Città”. Mi piace riportare le sue testuali parole a proposito di questa preziosa realizzazione. Spesso negli ultimi tempi in seno alla comunità ecclesiale locale si è sviluppato un dibattito serrato sull’opportunità o meno di tenere aperte al culto le chiese non parrocchiali. Chi scrive questo articolo ha sempre difeso in ogni occasione l’importanza sotto ogni aspetto di questi antichi e venerati luoghi sacri ed ha detto a chiare lettere che qualsiasi altra destinazione o la loro totale chiusura sarebbero state un vero e proprio scempio perpetrato nei confronti della fede, dei nostri antenati, delle devozioni dei santi lì venerati, delle memorie, delle opere d’arte racchiuse in quei luoghi che, inevitabilmente, sarebbero stati dati in pasto alla desolazione ad all’abbandono, come sta accadendo per la chiesa più antica di Monte Sant’Angelo: S. Antonio Abate del 1100, penosamente inutilizzata. Ho sempre sostenuto che la comunità parrocchiale non deve restare arroccata tra le pareti di un edificio che, solo per una serie di eventi storici favorevoli, è divenuto sede parrocchiale invece di un altro e che tutte queste chiese cosiddette secondarie, specie per le devozioni mariane e ai santi in esse nate e gelosamente custodite, armonizzate ovviamente nella pastorale e nelle liturgie comunitarie, non meritano assolutamente di vedere perdute per sempre o sminuite le loro funzioni di luoghi di culto e di aggregazione nella preghiera. La chiesa dei Cappuccini, causa l’ inaspettata seconda chiusura per insorti problemi alla statica, avvenuta circa cinque anni addietro, sembrava essere uscita di scena completamente nel disinteresse generale. Invece ora torna alla sua funzione restaurata, ripulita da orpelli ed incrostazioni e in tutto il suo primitivo splendore. Siano rese grazie al Signore che spesso spiazza completamente le aspettative ed i modi di pensare, peraltro mutevoli, di noi uomini. Un grazie di cuore per questo dono ricevuto a coloro che a qualunque titolo vi hanno concorso ed a quanti hanno offerto generosamente, nonostante le pesanti ristrettezze imposte dall’euro.

di Ernesto Scarabino